1993 - I Nuovi Baffi

Trent'anni di Festival di Poesia Erotica

In ricordo della prima volta, ecco il racconto edito dell'edizione 1993 del «Baffo - Zancopè», tratto dal libro I Nuovi Baffi, edito da Filippi e presentato (quell'anno) al Teatro a l'Avogaria auspice il maestro Maurizio Scaparro.

Un portone nero cigola nel buio. L'uscio di palazzo Bellavite si apre letnamente. Appena una fessura. Una lama di luce taglia campo San Maurizio e una figura in nero scivola fuori, furtiva, nella notte. Sembra esitare, un piede ancora sullo scalino. Gira la testa a destra e a sinistra, guardandosi intorno come per non farsi sorprendere. O per sorprendere.

Porta in testa un tricorno nero con un fiocco nero. Sul volto, una bauta nera. E uno zendal finissimo, di seta nera ricamata. È avvolto in un tabarro pesante, nero, lungo quasi fino ai piedi. Solo le scarpe, che si intravvedono appena, sono di un rosso acceso, infiocchettate da una ciocca nera. La figura in nero ha le spalle curve, si appoggia ad un bastone con l'impugnatura di avorio intarsiato. Ha il passo incerto di un uomo che non vive più da tempo i giorni della giovinezza.

Si avvicina al pozzo in mezzo al campo senza farsi notare. La sua sagoma si confonde tra la gente mascherata. Ce n'è molta a Venezia. È una delle ultime sere di Carnevale, la città è in festa. L'aria è gonfia di echi di musiche lontane, di profumi di donne, di risate di uomini, di odori di fritole e di vino.

L'uomo entra in una taverna fumosa nella calle che porta al campiello della Feltrina. I tavoli sono affollati di ragazzi che parlano a voce alta, i vetri sono appannati, l'oste porta brocche colme fino all'orlo. L'uomo li guarda. Il fumo gli brucia gli occhi.

Si avvicina ad un tavolo, come se cercasse posto. Traffica sotto il tabarro. Lentamente, con la destra, tira fuori dalla tasca un foglietto di carta ingiallita, tutto spiegazzato. Senza una parola lo allunga al giovane più vicino, un ragazzo bruno che è seduto con le gambe accavallate e la bocca aperta all'estremità del tavolo. La mano dell'uomo è mossa da un fremito leggero. È una mano curata. Ma forte, nodosa, le vene si gonfiano grosse sul dorso. L'uomo non aspetta che i giovani aprano quel foglietto. Gira sui tacchi, si riavvolge nel tabarro e scappa fuori, veloce per quanto glielo consentono le gamebe malferme. Sotto la bauta stringe le labbra in un ghigno che gli piega in basso l'angolo sinistro della bocca. L'oste giura che l'ha sentito ridere.

I giovani si guardano con dei punti interrogativi negli occhi. Una ragazza con le trecce e gli occhi verdi strappa quel foglietto di mano al suo compagno. Lo apre con dita nervose. Ci sono dei versi scritti a mano, con una grafia minuta e regolare. La ragazza legge a voce alta.

Cara Mona, che in mezzo a do colone
ti xe là messa, come un capitelo,
per cupola ti gà do culatone,
e 'l bus del cul de sora xe 'l to cielo

L'uomo in nero è già tornato nel campo. Adesso si avvicina ad un capannello di maschere che ballano. Non si cura di lui, la gente. Lui la guarda curioso, e da sotto il tabarro tira fuori un altro foglietto spiegazzato, come aveva fatto alla taverna. Con un gesto cortese, lo porge ad una donna incipriata. La donna ha una cinquantina d'anni, il trucco pesante, le ciglia finte. Lo ringrazia con un inchino. Poi, quando legge, trattiene con le dita inguantate sulla bocca un'esplosione di meraviglia.

Oh! Bus del Cul, che tra do colinette,
in circolo ti xe tondo, e perfetto,
un vaso ti me par pien de zibetto
messo in conserva in quelle to grespette

Si accapigliano, scherzose, le dame attorno a quel foglietto. E quando hanno finito di leggere cercano con gli occhi quell'uomo che aveva tanto osato. Ma l'uomo in nero non c'è più. Si è nascosto tra la folla delle maschere. Dopo un po' qualcuno lo vede davanti alla bottega del fruttivendolo. Ha un altro foglietto in mano. Stavolta sembra scegliere con cura la persona alla quale consegnarlo. Lentamente si avvicina ad un vecchio con la barba bianca e una giubba da marinaio.

Care Tette, vu se' l'unica, e sola
parte, che più someggia alle culate,
vu se' quelle colline delicate
dove in mezze, co i puol, i oselli svola

Per il campo si sparge una certa eccitazione. Le maschere hanno ormai individuato quell'uomo in nero che va in giro tra la gente e distribuisce a sorpresa i foglietti con le sue poesie erotiche. Non capiscono se è un gioco o se è vero. Ma lo seguono. Lui è davanti al portone delle scuole. In mano, un'altra poesia. C'è un gruppo di ragazzine vestite da orsetti che fanno il girotondo. L'uomo si avvicina. Sceglie una biondina. Alta, esile, i lineamenti delicati. Per lei ha scelto una poesia speciale.

Caro Cazzo, che in fondo della panza
ti xe là fatto, che ti par un palo,
che se una donna te vien a cavalo
ti me deventi un Paladin de Franza

Attorno all'uomo in nero c'è ormai una piccola folla. Qualcuno grida. Un nobiluomo, panciotto damascato e tricorno ridondante di fregi dorati, gli si avvicina reggendo una torzia accesa e lo aiuta a farsi largo tra la gente. C'è chi tende la mano per avere una poesia, chi lo insulta, chi minaccia di chiamare i carabinieri. «Porco» gli sputa in faccia una donna grassa. L'uomo in nero sale sul palco eretto in mezzo al campo per gli spettacoli di Carnevale. Sul palco è ricostruito l'interno modesto di una vecchia casa veneziana. Pochi mobili spogli, vecchie sedie tarlate, tappeti ormai scoloriti, alcuni quadri di pessimi imitatori del Guardi alle pareti. Il servo, Bastian, è in casa che aspetta l'uomo in nero. Dalla finestra ha visto tutto il trambusto nel campo. L'uomo in nero sale i grandini con fatica, Bastian lo aiuta, con gesti lenti, a togliersi il tabarro.

- Bastian, gavè sentio che fredo che fa stasera?
- Sì, paron.
- Gavè impissà la stua?
- Sì, paron.
- Manco mal.
- Sì, paron.
- Ma no savè dir altro che sì paron?
- Sì, paron.

Sotto il tabarro, l'uomo in enro ha un abito rosso cardinale, un panciotto dorato, una zogia turchese sul bavariol. Si soffia sulle mani sfregando i palmi uno contro l'altro. Siede ad un piccolo e vecchio tavolino di legno ingombro di libri, di carte, di matite smozzicate. Prende la scatola dei fiammiferi e accende un vecchio lume a petrolio. Si toglie la bauta e lo zendal, inforca gli occhiali da lettura, degli occhialini piccoli e tondi con le stanghette dorate. Si versa un bicchiere di rosolio da una bottiglietta smerigliata e lo butta giù d'un fiato. Poi tira una presa di tabacco che ha tolto da una scatolina marron, starnutisce tre volte strofinandosi il naso con il dorso della mano destra e quindi, con un gesto deciso, afferra un foglio dallo scrittoio.

Con l'altra mano prende una penna d'oca da una vaschetta di vetro. La penna è lunga, dai colori cangianti. Ha dei riflessi viola e blu come la penna di un pavone. In un lento rituale, spalanca il coperchio d'argento della boccetta dell'inchiostro, e fa per intingere piano la penna. Ma il pennino dorato sbatte con un tic maligno contro una superficie dura.

«Ciò, fa cussì fredo che se gà gelà anca l'inchiostro... oltre che i cogioni!»

L'uomo in nero riscalda la boccetta dell'inchiostro sulla fiamma della lampada. Quando l'operazione gli riesce, comincia a scrivere, declamando ad alta voce.

Mi dedico ste mie composizion
ai Omeni, e alle Donne morbinose;
a quelli veramente, che le cose
i varda per el verso, che xe bon.
Sotto le metto alla so protezion
acciò che dalle teste scrupolose,
come persone tutte spiritose,
i le defenda colla so rason;
Che i diga che qua drento no ghe xe
né critiche, né offese alle persone,
che de Dio no se parla, né dei Re,
Ma sol de cose belle, allegre e bone,
cose deliciosissime, cioè
de Bocche, Tette, Culi, Cazzi, e Mone.

Il mistero è svelato. L'uomo i nero è Zorzi Alvise Baffo, il grande poeta erotico del Settecento veneziano (1694-1768) «che tanto nominò la Mona e 'l Cazzo». I suoi concittadini, più di duecento anni dopo, ne salutano, entusiasti, la resurrezione.

È cominciato così, la sera di domenica 21 febbraio 1993 a Venezia, in Campo San Maurizio, il primo Festival internazionale di poesia erotica «Baffo-Zancopè», organizzato dalla Compagnia de Calza «I Antichi» per onorare la memoria del fondatore e Prior Grando della Compagnia de Calza «I Antichi» Paolo Emanuele Zancopè, scomparso il 21 dicembre 1992, e per celebrare i sommo poeta licenzioso del Settecento veneziano Zorzi Alvise Baffo, del quale ricorre, nel 1994, il tricentenario della nascita.

Baffo e Zancopè vissero e operarono entrambi a San Maruzio, nello stesso campo dove ha avuto sede, dal 1980 al 1992, la Compagnia de Calza «I Antichi», che dal 1993 porta la dicitura «fondata da Zane Cope», nome di battaglia del suo fondatore e Gran Priore per dodici anni. Per questo la serata del Festival di poesia erotica è cominciata la «resurrezione» di Baffo, fatto rivivere con affetto ed arguzia dall’erotologo Bob R. White, già autore ed interprete, per la Compagnia de Calza «I Antichi», di sapienti rievocazioni baffesche ai festival settecenteschi di Parigi, Monaco, Napoli. Bob R. White, che è stato fin dall’inizio uno dei più stretti collaboratori di Zancopè, oggi è uno dei componenti del Consiglio dei Savi della Compagnia de Calza «I Antichi» e consigliere particolare del nuovo Prior Grando Colo de Fero, al secolo Luca Colferai.

Sulla facciata di Palazzo Bellavite in Campo San Maurizio dove visse Zorzi Baffo — lo stesso palazzo in cui abitò Alessandro Manzoni — c’è una lapide, issata nottetempo nel 1982 dall’Associazione «Amici di Giorgio Baffo» e dalla Compagnia de Calza «I Antichi», e messa definitivamente in posa nel 1987, che lo ricorda con le parole di Guillaume Apollinaire che lo tradusse in francese: «Poeta che cantò l’amore con la massima libertà e con grandiosità di linguaggio». Apollinaire lo aveva definito «il più grande poeta libertino di tutti i tempi».

Magistrato della Serenissima Repubblica nella Quarantia, la corte suprema di giustizia, irreprensibile nella vita pubblica come in quella privata (diversamente da quanto credono in molti, era tranquillamente sposato con la nobildonna Cecilia Sagredo «peritissima nel clavicembalo»), il patrizio Zorzi Alvise Baffo, amico della madre di Casanova (Giacomo lo definì «genio superiore»), profeta dell’edonismo libertario, la notte si trasformava e cambiava pelle. Girava per i campi e le osterie, a distribuire quei suoi foglietti con le poesie «sataniche», alimentando la sua leggenda di satiro impenitente, trasgressivo, oltraggioso, meravigliosamente osceno, che per decenni ha scandalizzato i benpensanti e certa critica «colta».

Parecchi, nell'universo letterario, sono andati sovente cercando di spiegare — senza riuscirci, se non parzialmente — perché mai un nobiluomo così colto e perbene, cui non faceva difetto l’uso della penna e della metrica, andasse sprecando il suo tempo e le sue energie nel cantare, quasi esclusivamente, le laudi del cazzo e della mona, invece che tentare più nobili approdi letterari, come la sua maestria nel poetare gli avrebbe probabilmente consentito.

Mistero gaudioso e insoluto. Si è parlato di frustrazioni, di delusioni per una carriera mancata di scrittore e di poeta, di maniacalità del carattere, di turbe psichiche e sessuali, del mal francese che gli avrebbe dato alla testa. Ma nelle antiche cronache non c’è traccia sufficientemente credibile da riportare a queste (presunte) anomalie la sua intera produzione poetica. Ecco perché la spiegazione, forse, è meno arcana. Ammesso che ce ne sia una. Perché Baffo, nel suo ossessivo poetare sesso, ossessivo ma quasi sempre giocoso, ironico, solare — non inquieto e tenebroso, semmai soltanto mesto negli anni della vecchiaia — forse ci metteva solo un desiderio di stupire, di scandalizzare, di divertire divertendosi, mettendo alla berlina, assieme a sé medesimo, la società del suo tempo con tutti i suoi vizi e i suoi difetti. Che, anche allora, non erano pochi.

Non a caso il Baffo, libertino, beffardo, iconoclasta, anticlericale, antigoldoniano, dissacratore, fustigatore di costumi di una società ormai allo sbando, avviata sulla china di una decadenza inarrestabile, si rivela, nel suo osceno gioco, anche un fedele cronista dei misfatti del suo tempo.

Come annota lo scrittore Elio Bartolini nella prefazione alla Raccolta universale delle opere di Giorgio Baffo, ristampa dell'edizione di Cosmopoli 1789 pubblicata tre anni dopo la morte del poeta per iniziativa di un suo estimatore, Lord Pembroke (Longanesi, Milano 1971), quello che succedeva nella Venezia di quegli anni era lo specchio fedele di quanto Baffo trasferiva nelle sue pagine sulfuree: il patrizio Corner che scappava all’estero con una meretrice bolognese; il patrizio Loredan in casa di una meretrice ferrarese; il patrizio Giustinian, giudice alla bestemmia, che frequentava le bische senza nemmeno la maschera sul volto; la patrizia Badoer che, «assae morbinosa», andava a Verona con il marito e con l'amante, e «riposavano tutti e tre nella medesima stanza»; il nobiluomo Almorò Giustinian che si mostrava «morbido» per Francesco Crespi; il patrizio Marco Donà, ateista, sodomita, mangiatore di grasso nei giorni proibiti; i lacché concupiti dal nobile Ludovico Rezzonico; la nobildonna Cecilia Minio «dedita al vino» e considerata «quanto una pubblica meretrice»; Marina Querini Benzon tra amanti e ruffiani siciliani che le procurano altri amanti «dalli quali stessi viene goduta, e che spendono fortemente; il canonico Priuli di San Salvador «sadico con donne di partito» e via discorrendo.

Se questo era il clima che in quei tempi si respirava a Venezia, si può ben capire come il nobiluomo Baffo si divertisse a prendere in giro i vizi segreti dei suoi concittadini e a spiattellarli impietosamente in pubblico. Arrivando a teorizzare e sublimare una sua particolarissima concezione «filosofica» della vita, alla quale ha improntato la gran parte della sua opera, che cioè fra le tante miserie umane, le gioie vere della vita non potevano venire che dal sesso. Solo dal sesso. Vissuto in totale allegria e in assoluta libertà.

E Baffo si serviva del sesso per compiere, di tanto in tanto, anche qualche disinvolta operazione di satira politica, che sicuramente non avrebbe potuto esercitare nei panni paludati del suo mestiere di magistrato integerrimo al servizio della

temibile Repubblica del Leone. Ecco allora che il poeta dell’osceno si ergeva a censore. E la sua furia iconoclasta si scatenava contro i fratazzi ingordi, i predicatori untuosi, i Gesuiti infidi, le Madri Priore che si sollazzavano con gli ortolani, i confessori pronti a mettere le mani sulle femmine altrui, quando non riuscivano a metterle sui testamenti.

L’osceno Baffo non aveva pietà per nessuno, quando si trattava di mettere sulla graticola i potenti. E scagliava i suoi strali contro le più alte gerarchie ecclesiastiche, contro i cardinali, contro lo stesso pontefice, usando contro il potere, sia politico che clericale, l'arma dell’osceno. Quella stessa arma che aveva spesso usato, nei secoli passati, il popolino calpestato e deriso, che di altre armi non poteva disporre, e si affidava allora all’antico, perfido sberleffo, come ha raccontato con efficacia Dario Fo in alcune delle sue rappresentazioni più riuscite, a cominciare da quel capolavoro che è Mistero Buffo.

Dimenticato dalla cultura ufficiale, quella con la C maiuscola, o con la K se si vuole, bocciato dalla critica, bollato dai benpensanti e dalla Chiesa, per duecento anni Zorzi Alvise Baffo è stato dimenticato da tutti. E stato dimenticato — e questo è più grave — persino nella sua città, Venezia, sempre così matrigna, che immemore del suo passato di città aperta, laica, colta, tollerante, ha scelto anch’essa la strada di stendere un velo pietoso di silenzio e di oblio su questo suo figlio così degenere, così ingombrante, così laido, così disgustoso, così schifoso. Basta pensare che Baffo fu pubblicato solo dopo la morte, e dovette pensarci un inglese, e che anche nei secoli successivi le sue opere hanno visto la luce piuttosto raramente. Tra le produzioni più significative, la raccolta completa edita da Longanesi con la prefazione di Elio Bartolini, un cofanetto Mondadori curato da Piero Chiara, un Oscar con un saggio di Piero Del Negro, e alcune raccolte non complete, come quelle a cura del Centro Internazionale della Grafica, del Club del libro Fratelli Melita, e della CGS Edizioni che ha pubblicato alcuni inediti di Baffo scovati da Carlo d’Altilia e Adriano Favaro.

Per riscoprire Baffo, per riportarlo — per quanto possibile — nella sua luce più giusta e più vera, ma soprattutto per farlo conoscere a quanti — e sono tantissimi, anche a Venezia — non ne avevano nemmeno mai sentito parlare, ci voleva, agli inizi degli anni ’80, un personaggio come Paolo Emanuele Zancopè.

Avvocato veneziano, antiquario, rivoluzionario in Brasile, animatore delle scuole di samba, fondatore e Gran Priore per dodici anni della Compagnia de Calza «I Antichi», Paolo Zancopé, spirito libero, uomo di grande cultura, organizzatore infaticabile di feste e di spettacoli che si richiamavano alle più antiche e genuine tradizioni della storia di Venezia, era entrato, per uno di quei curiosi miracoli che possono accadere solo in una città come Venezia, in una sintonia quasi perfetta con il poeta maledetto vissuto duecento anni prima.

Sentite cosa scrive Zane Cope nel 1984 quando scopre, in una polverosa soffitta veneziana, l’unico ritratto esistente di Giorgio Baffo di cui si abbia notizia (fatta eccezione per la copia di un altro quadro custodita presso l’Archivio Gherro della biblioteca del Museo Correr) opera, secondo l’expertise del professor Egidio Martini, del pittore Andrea Pastò: «Quando mi portarono il ritratto di Zorzi Baffo, fu come se in fondo ad un dimenticato cassetto dell’antica scrivania del nonno avessi trovato la fotografia di un parente. Eccolo qua davanti a me come lo avevo immaginato, dignitoso, simpatico, quasi paterno. Non mi era mai andata giù quell’effige delle due stampe, l’unica fino a ieri conosciuta, che ce lo dà laido, con lo sguardo sfuggente, con la boccuccia libidinosa, immagine perfetta (e per ciò assai sospetta) di frustratissimo maniaco sessuale».

Rotondetto, bonario, ironico, arguto, con i suoi occhialetti e i suoi foulards, Zancopè assomigliava a Baffo anche fisicamente. Del vecchio poeta aveva fatto l’anima letteraria della Compagnia de Calza. L’aveva resuscitato, lui e la sua opera, portandolo al centro di feste, rappresentazioni, spettacoli, convegni, pubblicazioni, recital di poesie, coinvolgendo, in Italia e all’estero, la gente comune, gli scrittori, i registi, gli intellettuali. Restano memorabili alcune rappresentazioni inscenate a Castel dell'Ovo, a Napoli, al «Deutsches Theater» di Monaco di Baviera, a Palais Royal a Parigi, a San Maurizio a Venezia con la complicità del regista Tinto Brass, a Palazzo Grassi, sempre a Venezia, con gli scrittori Elio Bartolini, Piero Chiara, Nantas Salvalaggio, Milena Milani.

Non è dunque un caso se il Festival di poesia erotica, iniziato nel 1993, è stato dedicato, come questo libro, alla memoria di Zorzi Alvise Baffo e di Paolo Emanuele Zancopè, legati da un comune sentire per i fatti e i misfatti della vita, dalla stessa ironia, dalla stessa voglia di divertire divertendosi, di giocare, di stupire, dallo stesso gusto per la trasgressione e lo sberleffo, dallo stesso amore per Venezia, per la sua storia, per le sue tradizioni popolari più vere. Più schiette. E non è un caso se il Festival di poesia, allietato dalle arie soavi degli evirati cantori barocchi Andrea Vitali, Andrea Fusari ed Elisabetta Zucca, si è concluso con un commosso «pellegrinaggio» davanti alle case di campo San Maurizio dove abitarono Baffo e Zancopè. Guidati da Mauritio «Merdazzer» Bastianetto, clisterologo © ufficiale della Compagnia de Calza «I Antichi», che aveva condotto assai brillantemente la serata nel ruolo di «spalla» di Bob R. White, poeti e compagni di calza seguiti dal pubblico alla luce delle torce, si sono recati in corteo, quando ormai era calata una notte più nera dell’inferno, davanti al portone del poeta e del priore. Mani di donna hanno deposto mazzi di bianche calle. Poi tutti hanno recitato delle poesie, e il coro baffesco si alzava nel buio più possente di quello dell’Aida. Il «Merdazzer» aveva scelto «Lode alla Mona», la più celebre delle poesie del Baffo, davanti alla casa del poeta, e «Sorpresa d’un frate mentre buzarava un ragazzo» dinanzi a quella di Zancopè. Era una delle poesie che il Gran Priore della Calza amava in modo particolare (l’aveva persino musicata in forma di tango) e che era solito recitare nei suoi spettacoli intorno al mondo quando, con abilità consumata, e con sua grande gioia, poteva indossare i panni del grande poeta, riportandolo, anche solo per una sera, alla vita. Un’interpretazione, la sua, così convincente che una volta, a Napoli, il pubblico credette che fosse davvero lui il poeta Baffo, e non un altro vissuto duecento anni prima. Al punto che, quando passava per la strada, la gente lo riconosceva e gli gridava: «’A Baffo, dicce ’a poesia!».

Per capire, del resto, chi fosse davvero Zancopè, basta leggere l’epigrafe che il giorno della sua morte, il 21 dicembre 1992, i Compagni di Calza gli hanno dedicato, e che porta, in alto a destra, proprio un’iscrizione di Baffo: «Perché de là no posso portar gnente, erede universal lasso la zente che vive allegramente». «A chi che lo gà cognossuo, no serve parole par ricordarlo — scrivono di Zancopè i Compagni di Calza — a chi che no lo gà cognossuo, ghe basti de saver chel ga sempre vissuo da omo libaro, che’l gà pensà co la so testa, che’ Se gà portà co inteligenza, cultura, ironia e toleranza, dando fià, finché fià ghe xe restà, a le vose e a lo spirito più veri de la so Venetia. De tanta zente el xe sta un amigo vero, un compagno de vita, un maestro, un fradeo, un pare. La so scomparsalassa un vodo grando».

Alla prima edizione del Festival di poesia erotica «Baffo—Zancopè» sono scesi in campo diciassette poeti. Quelli che sono stati chiamati «I Nuovi Baffi», poeti erotici di fine millennio, di un'epoca che sta per finire, permeata di decadenza com'era la fine del ’700. Di questi poeti, nove erano in concorso. Otto gli ospiti d’onore: Renato Coller, Emanuele Horodniceanu, Lucia Lucchesino, Sandro Mattiazzi, Luciano Menetto, Matelda Santelli, Mario Stefani, Jacopo Terenzio.

In concorso c'erano: Silvano Bernardi, Capitan Mandolino (al secolo Nerio Zangirolami), Fratazzo da Velletri (al secolo Giovannino Cerruti & Maurizio Lucchi), Guerrino dal Cao de Là (al secolo Giano Lovato), Piera Piazza, Teofilo Spallanzani (al secolo Massimo Rossi), Antonio Spernich, Aldo Trivellato, Liliana Zanon.

La Giuria, composta dal Consiglio dei Savi della Compagnia de Calza «I Antichi» e dai poeti ospiti d’onore, ha assegnato il primo premio al poeta Aldo Trivellato di Meolo (Venezia), il secondo al poeta veneziano Capitan Mandolino alias Nerio Zangirolami, il terzo alla poetessa di Mestre Liliana Zanon. Nel libro I Nuovi Baffi, voluto nel 1993 dalla passione dell’editore Filippi, libraio storico e raffinato amante di cose veneziane, sono raccolte in ordine alfabetico le opere di tutti i poeti che, in concorso e non, hanno partecipato al Festival. Le stesse che sono state presentate, dai loro autori, in campo San Maurizio.

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