03 Antiche Compagnie

Le Compagnie de Calza nella storia

di Sebastiano SebaZorzi Giorgi *

È NELLA fiorente Venezia del Quattrocento che nascono le Compagnie de Calza. Un secolo straordinario per la Serenissima giunta all’apogeo di quella civiltà politica e sociale che la renderà immortale anche dopo la sua caduta. Una Repubblica caratterizzata da un sistema nel quale ogni funzione controllava le altre e da queste veniva a sua volta controllata. Così, inevitabilmente, alla nascita e al prosperare delle Compagnie de Calza seguì l’istituzione di una magistratura apposita per la limitazione delle spese voluttuarie dei privati per feste e rappresentazioni: i Provveditori alle Pompe.

È affascinante scoprire come perfino il divertimento, unico autentico fine delle Compagnie de Calza, sia per i veneziani qualcosa da organizzare e controllare con statuti, regole, sanzioni e forti simboli identitari, seppur nella mescolanza delle classi sociali dei compagni. Da questo punto di vista potremmo azzardare che le Compagnie de Calza possono essere viste come una summa del sistema fondante la civiltà Serenissima: aggregazione, organizzazione, senso di appartenenza, partecipazione popolare e aristocratica insieme, il tutto votato ad uno scopo superiore.

Compagnie ludiche, in qualche modo paragonabili ai club di oggi, che non si discostavano troppo da scuole, ordini e corporazioni di arti e mestieri, ovvero da quelle comunità economiche, sociali, caritatevoli e religiose, che rendevano straordinariamente compatto il tessuto sociale veneziano.

Secondo le fonti, scarse e non sempre concordanti perché gli archivi delle Compagnie si disperdevano col terminare delle stesse, tra il 1400 e la seconda metà del Cinquecento si contano quarantatré Compagnie de Calza. La prima fu quella dei Pavoni, costituita nel 1400, anche se il più antico statuto giunto fino a noi, attraverso varie trascrizioni, è quello dei Modesti, da cui presero spunto gli atti costitutivi di altre Compagnie, come quelle dei Sempiterni e degli Accesi.

Caratteristica di questi atti pubblici, compilati (generalmente in latino, il proemio, e in veneziano, i capitoli) da un notaio e sottoscritti dai compagni, è l’invocazione alla fratellanza e poi, con diverse formule, la proposizione di organizzare feste e piaceri. Obiettivo descritto utilizzando un lessico retorico per il desiderio di ammantare di valenze morali, politiche, religiose il vero fine del divertimento.

Prima di passare alla lettura di alcuni capitoli di questi statuti, che da soli spiegano con grande efficacia molti aspetti della vita e degli usi delle Compagnie, la cui vivace presenza nella vita della città è riccamente documentata soprattutto nei cicli pittorici del Carpaccio e nei Diari di Marin Sanudo, vale la pena ricordare l’importanza dei momenti del levar la calza e del butar la calza. Il primo corrispondente all’inizio dell’attività delle Compagnie ed il secondo alla fine delle stesse, anche se i compagni erano poi tenuti a rispettare alcune disposizioni comportamentali, come il portare gli abiti della Calza in determinate occasioni, anche dopo la butada de calza. A tal riguardo l’attuale Compagnia de Calza I Antichi fece una butada de calza alla morte del Priore-fondatore Paolo Zancopè, per poi riattivarsi in seguito attraverso una levada de calza.

Ecco alcuni dei principi che ricorrono in numerosi antichi statuti:

I. I compagni devono amarsi e ubbidire ai capitoli;

II. Il Signore o Priore ha il diritto di condannare dal giorno in cui si leva la calza al giorno in cui la si butta;

III. Il compagno che propone l’elezione di un nuovo socio, il quale poi non accetti, deve pagare una multa;

IV. I compagni che si sposano devono offrire due pasti a tutti i colleghi;

V. I compagni in lutto non sono obbligati a portare le vesti o la calza della società;

VI. Viene nominato un Signore sino al levare della calza.

Altre disposizioni frequenti erano: l’elezione di un Signore alle feste, il pegno per le possibili condanne inflitte dal Signore nelle feste, l’obbligo di avvertire entro un certo tempo i soci lontani, l’obbligo di lutto per la morte di un compagno, la limitazione del numero di soci, la nomina oltre che del Priore anche dei Consiglieri, Sindaci e del Camerlengo (il tesoriere), l’affidamento della giustizia a un’autorità della Repubblica Veneta, l’obbligo della veste di seta per un periodo minore di tempo di quello in cui si deve portare la calza, l’obbligo della veste di seta per le nozze di un compagno, il diritto d’appello alla Compagnia contro le condanne, la determinazione del numero legale nelle adunanze, la massima multa per chi vuol uscire dalla Compagnia, e poi ancora le regalie al cappellano, al notaio e al nunzio in caso di nozze, occasione questa in cui il compagno che si ammogliava doveva per due volte offrir banchetto agli altri.

Tra le regole diverse c’era la durata in carica del Priore (un anno per i Sempiterni, per tutta la durata della Compagnia quello degli Accesi) e i colori della calza che portavano i Compagni.

Era quindi la differenza estetica a far individuare l’appartenenza ad una specifica Compagnia ed in particolare la tonalità della calza (così si chiamavano i pantaloni, portati attillati), che aveva la gamba sinistra, monocromatica, diversa dalla destra che era divisa in più colori e su cui spesso si ricamava il simbolo della Compagnia.

Tra gli abiti che contraddistinguevano i soci delle Compagnie c’erano poi i mantelli come ricorda Marcel Proust che ne «La Fuggitiva» cita la Compagnia de Calza quando, guardando il «Miracolo della reliquia della croce», quadro del Carpaccio esposto alle Gallerie dell’Accademia, con un morso al cuore gli torna alla mente l’immagine della donna troppo amata. Cosa è accaduto? «Sulle spalle di uno dei giovani della Compagnia della Calza – spiega Proust – avevo riconosciuto il mantello che Albertine aveva preso per venire con me in vettura scoperta a Versailles, quella sera in cui ero tanto lontano dal pensare che appena una quindicina d’ore mi separassero dal momento in cui sarebbe partita da casa mia. Sempre pronta a tutto, quando le avevo chiesto di uscire (...) s’era gettata sulle spalle un mantello di Fortuny che il giorno seguente aveva portato con sé e che poi nei miei ricordi non avevo più riveduto. Da quel quadro di Carpaccio, dunque lo aveva preso quel geniale figlio di Venezia; lo aveva staccato dalle spalle del giovine della Compagnia della Calza».

Ma torniamo alla vita delle Compagnie per la cui nascita ci voleva il benestare del Consiglio dei X al suddetto statuto in cui, oltre alle cariche canoniche del Priore, del Camerlengo, dei Segretari, dei Consiglieri, del cappellano, del nunzio, si potevano poi aggregare e stipendiare poeti, architetti, autori, come Angelo Beolco detto il Ruzante, e pittori, uno per tutti Tiziano.

Nella Venezia rinascimentale, dal Dogado di Francesco Foscari fino a tutto il Cinquecento, di certo non mancavano artisti di qualità tanto che nel 1542, Vasari cura l’apparato per una rappresentazione da parte di una Compagnia della Talanta opera di Pietro Aretino in un edificio nel sestiere di Cannaregio. Nel 1564-65 Andrea Palladio costruisce per la Compagnia degli Accesi, un ampio «mezzo teatro di legname a uso di colosseo» destinato forse a un impiego permanente, ma che fu distrutto nel 1630 da un incendio.

La grandiosità degli eventi e l’importanza degli artisti coinvolti non deve stupire perché stiamo parlando di una città che tra il XIV ed il XVI era il centro del mondo. Il banco giro di Rialto, per capirci, era la Wall Street di oggi, la vicina area del Castelletto era la zona dove fioriva, con intensità industriali, la prostituzione, mentre sullo sfondo del Canal Grande sfilavano gondole di casada vogate da gondolieri negri, tartari, circassi, importati da ogni angolo del mondo.

Un’epoca d’oro in cui la Serenissima si arricchisce ed estende i suoi domini, mentre capitani veneziani sono al soldo di paesi stranieri, come Alvise da Mosto che scopre il Senegal e Capo Verde, per il Portogallo, Giovanni Caboto che approda a Terranova piantando la bandiera di San Marco al fianco di quella inglese, alle cui dipendenze lavorava, senza dimenticare Niccolò de Conti da Chioggia che esplora l’Indonesia e Ceylon, fornendo preziose informazioni a fra Mauro camaldolese per la preparazione del suo straordinario Mappamondo, ancor oggi conservato presso la biblioteca Marciana, sorta nel Quattrocento.

È chiaro che il fiume di ricchezza che circola a Venezia è impressionante ed insieme al benessere cresce tra i veneziani facoltosi il desiderio di mostrarsi, di far parlare della propria famiglia, mentre non meno importante è il ruolo che il Governo Serenissimo affida alle feste pubbliche, che dovevano creare attaccamento nel popolo e impressionare gli ambasciatori stranieri.

E così come i veneziani per sbaragliare la concorrenza nei commerci crearono il sistema pubblico-privato con le mude, carovane di navi private scortate dalle galee militari del Governo, che fornivano profitto a tutti, governo, privati e singoli galeotti con la paccottiglia, così nell’organizzazione delle feste la Serenissima, al pari delle famiglie patrizie, affidava con frequenza l’allestimento di momarie, trionfi e dimostrazioni alle Compagnie de Calza per divertire principi, nobili e popolani.

Ma da chi erano composte queste associazioni ludiche? Da giovani gentiluomini, discendenti delle famiglie nobili e borghesi, persone tra i trenta e i quarant’anni che sentivano l’esigenza di esprimersi in una società veneziana in cui la cui scalata alle cariche politiche gli era preclusa ancora per anni, visto che l’ascesa ai vertici del Governo era in gran parte determinata dall’anzianità.

Ed è per questo che il ruolo che svolsero le Compagnie de Calza andò ben oltre l’organizzazione di feste e piaceri. Questi circoli del divertimento ebbero infatti una certa funzione politica per gli stretti rapporti che intercorrevano tra le Compagnie e i principi stranieri, che spesso ne facevano addirittura parte o che comunque invitavano con frequenza le Compagnie ad esportare spettacoli anche fuori dai serenissimi domini, sempre con il preliminare via libera del Governo veneziano.

L’importanza delle Compagnie e della loro azione nel tessuto sociale è confermata dalle disposizioni governative che, continuamente sfidate e non rispettate dai compagni, cercano di controllare la loro attività. Il Consiglio dei X provò ad esempio, inutilmente, a limitare a 25 il numero dei componenti, mentre le Compagnie chiedevano continuamente di sospendere le leggi restrittive dei lussi, emanate a partire dalla seconda metà del XV secolo e poi ripetute in seguito per il rinnovarsi delle disobbedienze dei compagni. Sospensioni che poi arrivavano puntuali in occasione di feste in onore di personaggi verso cui Venezia aveva interesse a ben figurare.

Dietro a questi schizofrenici rapporti tra autorità serenissime e Compagnie di Calza c’è il palese timore del Governo, formato da anziani, di vedere nascere e svilupparsi attraverso questi circoli ludici dei centri politici che potevano alimentare ribellioni, anche se, allo stesso tempo, c’è la consapevolezza dell’utilità delle stesse Compagnie per favorire buoni rapporti con principi, nobili e mercanti stranieri, tanto che lo stesso Governo si rivolgeva ai compagni per organizzare l’accoglienza di ambasciatori e dignitari. Uno status coerente con l’odierno motto della Compagnia de Calza I Antichi, «i compagni di calza sono amati dal popolo e temuti dai potenti».

Per capire l’atmosfera che regnava basta riportare dalle cronache l’episodio del 1530 quando la Compagnia dei Reali chiese di rompere la parte (disposizione) contro i lussi per festeggiare il Duca di Milano. I compagni fra l’approvazione di tutti preparano ziponi (giubboni) dorati e preparativi di gran lusso pensando di chiedere solo all’ultimo momento il permesso. Il Doge si oppose e il permesso fu negato per pochi voti. I Reali protestarono dicendo di non aver altri vestiti pronti, ma il Doge rimase irremovibile. Le cronache narrano (senza peraltro farci sapere le conseguenze) che vedendo favorevoli molti patrizi influenti e avendo sentito un Savio del Consiglio che si offriva in persona di pagare le multe minacciate, i compagni portarono a dispetto del Doge e delle sanzioni previste i ziponi d’oro.

Altre disposizioni di controllo, regolarmente violate, furono quelle sulla partecipazione delle donne senza marito alle feste e quelle per i pranzi, giudicati troppo sontuosi, in cui non si doveva spendere più di mezzo ducato per persona. Spese ingenti, che il Governo cercò di controllare, erano quelle per le momarie, rappresentazioni che sintetizzavano bene il sottile rapporto fra iniziativa privata e semi-patrocinio pubblico. Le momarie erano gli spettacoli più caratteristici e famosi allestiti dalle Compagnie. Il termine, derivato dal greco e dal latino momos, personificazione della satira, e dalla parola mumi, maschere o attori mascherati, venne a significare a partire dalla fine del Quattrocento una rappresentazione pantomimica di carattere profano, spesso mitologico, accompagnata da musiche e danze, e mobile su soleri, specie di carri o piattaforme a ruote. Gli stessi membri delle Compagnie recitavano nelle momarie insieme a buffoni di mestiere come il famoso Zuan Polo che tra il 1512 ed il 1529 fu al servizio delle Compagnie degli Eterni, Immortali, Trionfanti, Ortolani e Floridi.

Compagnie che tra loro gareggiavano nel rendere sempre più sontuose e memorabili le feste cittadine, con banchetti, cortei, rappresentazioni, sia in occasioni di ricorrenze religiose, sia per ricevere gli ospiti illustri della Serenissima (che non di rado divenivano membri della Compagnia promotrice, come Federico marchese di Mantova accolto nel 1520 fra gli Immortali), sia per le nozze di uno dei compagni, e quando questo o la sposa appartenevano alla cerchia più vicina al potere, o alla famiglia del Doge, il Governo poteva prestare il Bucintoro o un luogo pubblico come la sala del Maggior Consiglio o il cortile del Palazzo Ducale

Tra gli spettacoli più usuali c’era l’organizzazione di regate e la Naumachia, finta battaglia navale. Una sorta di giostra marina tra barche con agguerriti equipaggi armati di aste con punta imbottita che cercano di disarcionarsi a vicenda.

Com’è facilmente intuibile culmine dell’attività delle Compagnie era il periodo di Carnevale in cui l’organizzazione di spettacoli da parte dei giovani veneziani, che giravano spesso per la città su carri allegorici, erano tra gli appuntamenti più ricercati di una città che offriva innumerevoli occasioni per spendere denaro tra ridotti e casini (case per il gioco d’azzardo, popolate da procaci donne pronte per licenziosi incontri), teatri, botteghe del caffè, malvasie, trattorie e altri casotti in cui a pagamento si potevano ammirare animali esotici, funamboli e prestigiatori.

Una storia affascinante quella delle Compagnie de Calza che con la rinascita del Carnevale, negli anni ottanta del secolo scorso, è ricominciata attraverso le gesta della Compagnia de Calza I Antichi.

E nonostante i presupposti economici e sociali della Venezia contemporanea non siano certo grandiosi e stimolanti come quelli in cui sorsero le prime Compagnie, oggi l’attività de I Antichi, tra feste beffarde e anticonformiste a Venezia e all’estero, banchetti nei campi, spettacoli teatrali, editti satirici e politici, festival di poesia erotica, divertenti pubblicazioni e mille altre invenzioni, ha il merito di scuotere l’opinione pubblica, far sobbalzare i governanti e divertire il popolo nel più autentico spirito ludico veneziano.

* Giornalista, storico della Compagnia de Calza

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